Speranza

Durante l’Attesa (tema su cui mi sono fermata nell’ultimo cantuccio) rimane viva la speranza. Proprio come – ancora una volta – cantava Emily Dickinson grande generatrice di indimenticabili immagini:

È la “speranza” una creatura alata

che si annida nell’anima –

e canta melodie senza parole –

senza smettere mai

Non sono solo parole poetiche. Se si ha pazienza di aspettare, orecchie per ascoltare, e occhi per tutto scrutare, la speranza si fa concretezza. Eccone due esempi riguardanti il mondo carta-penna in cui ho vissuto (e ancora vivo) tante passioni.

Il primo: in Svezia i bambini di questo anno scolastico 2023-2024 sui loro banchi al posto dei tablet e dei dispositivi digitali introdotti con importanti sussidi negli anni passati, hanno trovato …quaderni e penne, libri di carta, fogli. Una indagine internazionale che si ripete ogni cinque anni per misurare l’abilità di lettura degli studenti tra i nove e i dieci anni, aveva dimostrato come la capacità di lettura degli studenti svedesi fosse diminuita del 11% in 5 anni. E una delle cause principali si è dimostrata essere l’uso eccessivo dei dispositivi digitali.

Alle critiche degli zelanti fautori della “modernità” il ministro della cultura ha risposto: “Ci sono chiare prove scientifiche che gli strumenti digitali compromettono piuttosto che migliorare l’apprendimento degli studenti”.

Il secondo: è appena nata, nel Dipartimento di Lettere della Università la Sapienza una rivista… manoscritta. Si chiama DIGITI, evidentemente facendo riferimento alle “dita che tengono in mano la penna”.

Io, qui, voglio solo trascrivere il loro progetto che si fonda sulla “… scommessa di riappropriarsi di un percorso, di un ritmo di pensiero e di una fluidità di parole che solo la scrittura a mano, in particolare quella corsiva, permette di avere…”. Ogni articolo ha la grafia dell’autore. Cioè espressione della personalità di ognuno.

E così finisce l’anno 2023 e comincia l’anno 2024.

Senza titolo

Anna Rita Guaitoli

Attesa

Ho un’amica che insegue le parole che le vengono incontro. Scrive poi le successive riflessioni mettendole in relazione con immagini della natura che solo un occhio sensibile sa cogliere. In questi caldi caldi, difficili, mesi estivi ho goduto della sua sensibilità immaginativa, e ho trovato la spinta per recuperare il valore dell’attesa. Difficile farlo quando si subiscono dolori: domina la paura del dopo. Quasi impossibile da accettare per molti (ahimè, soprattutto per chi cresce) oggi, nell’epoca del “tutto-subito”.

Il valore etimologico spesso apre scenari diversi. “Ad-tendere” indica un tendere a, un aspirare: azioni che hanno implicito il rinnovarsi del desiderio. Ovviamente, Emily Dickinson lo sapeva dire, e come: Marzo: mese di attesa. / Le cose che ignoriamo /E le persone che aspettiamo/ Sono in cammino…

Del resto, ecco: un moscerino “deciso ad esplorare la pagina” in cui Isa stava scrivendo si è fermato sul bordo, in basso …. “È tempo di voltare pagina.” La sosta, l’inizio di altro. L’attesa.

 moscerino

Moscerino posato sulla pagina

D’accordo: non è facile. Occorre avere avuto la capacità (e la calma) di recuperare un tempo – non tempo; di accettare la sosta; di trovarsi pronti.

“Guardo delle formiche che hanno ammassato semi vicino all’entrata del loro nido: loro sanno quando è tempo di fare delle cose”.

Buon inizio (finito il caldo).

E grazie a Isabella Zucchi.

Anna Rita Guaitoli

Mani e bocca

Senza titolo

 

Lui è l’Homunculus. Fece la sua apparizione il primo dicembre del 1937, quando Wilder Penfield, neurologo canadese, pubblicò sulla rivista Brain un articolo. Le neuroscienze attuali hanno approfondito e apportato sviluppi, ma l’immagine, grottesca nell’eccessiva sproporzione, rende bene l’importanza che la manualità e la parola hanno nell’architettura funzionale della corteccia cerebrale. E quindi nello sviluppo – unico – del cervello umano.

Questi parti ingigantite dicono che sono loro ad attivare nel cervello reti più vaste e complesse: perché hanno un maggior numero di recettori (o densità d’innervazione) e quindi più neuroni dedicati al controllo. Ed ecco, allora, che noi possiamo godere della morbidezza di un tessuto, del piacere del gusto, della parola.

Non solo: il maggiore coinvolgimento dei sensi permette al cervello di mettere a punto movimenti delle mani più fini e accurati. Come è necessario nella scrittura a mano.

Infatti: premendo una penna sulla carta vengono attivati molti sensi, si affermava nella ricerca ricordata nel precedente Cantuccio. La studiosa van der Meer  precisava che «I movimenti delicati e controllati in modo preciso previsti dalla scrittura a mano contribuiscono all’attivazione di pattern cerebrali legati all’apprendimento; usando una tastiera, al contrario, non abbiamo trovato traccia dell’attivazione di questi schemi».

E io sottolineo ancora: “La scrittura a mano è un’abilità culturale complessa che coinvolge molte aree cerebrali e l’integrazione di abilità motorie e percettive”.

Prendete carta e penna. Il cervello resterà giovane.

Anna Rita Guaitoli

Casco in testa, scrittura a mano. E il suono della scrittura

Il casco (un vero e proprio elmetto spaziale, collegato a 250 sensori altamente sensibili a misurare l’attività cerebrale) è quello messo a 24 ragazzi e bambini dalla neuroscienziata olandese Audrye van der Meer della Norwegian University of Science and Technology.

La stessa aveva già fatto studi simili e il risultato, per chi segue questo tipo di ricerche, è lo stesso: si impara e si ricorda meglio usando carta e penna. L’esperimento (non recentissimo – 2020 – ma l’ultimo ad avere avuto risonanza) ha raccolto comunque numerosi dati la cui sintesi è in un articolo scritto dalla medesima scienziata: Solo tre dita scrivono, ma lavora tutto il cervello.

Già: “la tastiera richiede sempre lo stesso movimento, mentre con la scrittura a mano le dita devono compiere percorsi armoniosi, che sono utili in diversi modi”.

In questo studio anche il disegno viene riconosciuto attività complessa quanto la scrittura: entrambi riescono ad attivare gli “appigli” che creano contatti fra diverse parti del cervello permettendo di costruire gli schemi necessari per apprendere, codificare le informazioni, e poi creare.

Lo so: oggi che scrivere a mano sembra un gesto in via d’estinzione con i nostri giovani prigionieri dei loro smart-phone , gli occhi sempre più incollati sulla tastiera o alla ricerca frettolosa di qualche “faccetta”, … ricordarlo (magari agli adulti responsabili dell’educazione), sa da chiacchiera inutile di ‘grillo parlante’.

Ma poco me ne importa: in questo mio cantuccio sono libera. E posso così sottolineare della studiosa l’altra osservazione che amo: “premendo una penna sulla carta vengono attivati molti sensisi ascolta il suono della scrittura”.

Anna Rita Guaitoli

 

Ricordati di vivere

Stavo scrivendo su questi giovani ingabbiati in una continua prestazione tutta definita al presente, quando un caro amico mi ha mandato una riflessione dello scrittore – che sa parlare di amore come del coraggio di accettare la propria fragilità – Alessandro D’Avenia.

Un bell’articolo che ha dato luce ai miei pensieri: vi si ricorda il neuroscienziato Damasio e l’importanza delle emozioni; vi si sottolinea come l’eccitazione determinata dal consumismo che pretende continue performance, crei “ebbrezza” e, poi, una dipendenza che troppo somiglia a quella della droga.

L’articolo ha, soprattutto, rafforzato la mia preoccupazione per quelle emozioni legate ad una esibizione di sé attraverso bellezza e simpatia: effimere esposizioni che rischiano di far trovare troppi giovani impantanati in un tempo senza futuro, schiacciati da sentimenti di inadeguatezza.

Riporto il consiglio dello scrittore, leggermente adattandolo: prendere una mezz’ora al giorno (di prima mattina, o – aggiungo – alla sera) per una riflessione che permetta di collegare ciò che è già passato con quello che potrà essere. Un tempo si chiamava meditazione.

In effetti, nel virtuoso circuito della conoscenza, D’Avenia riporta il suggerimento di Etty Hillesum, ragazza ebrea morta nei campi di concentramento: “una mezz’ora di meditazione può creare una base di serenità e concentrazione per tutto il giorno. Non è però una cosa semplice… bisogna impararla”. Etty lo ha fatto, e lo ha scritto nei suoi diari.

Il caro vecchio diario: così intimo che lo si chiudeva in un cassetto per non farlo trovare. Quello che raccontava le vicende del giorno, ma si apriva alle speranze del futuro.

Perché non favorire, magari cominciando dalla scuola, qualcosa di simile a un diario? Lontano dal chiacchiericcio dei social, la parola scritta, con la sua capacità di mettere in collegamento le diverse aeree cerebrali, permette di analizzare le proprie esperienze, di esprimere le proprie emozioni: anche le più negative (paura, rabbia…), e senza paura di giudizi, della mancanza del “mi piace”.

Quel ritorno di te in te, forse, può davvero aiutare ad uscire dalla gabbia del presente. E… ricordarti di vivere.

Anna Rita Guaitoli

Una traccia per resistere

Trovare una traccia nelle pagine bianche che la vita permette ancora di sfogliare, vuol dire resistere, e alla vita restare attaccati. Vuol dire opporsi a quel lento, inesorabile percorso della memoria che porta a sfumare il ricordo fisico della persona.

Una traccia, anche per trovare le parole che non si dicono: “Date parole al dolore; il dolore che non parla bisbiglia al cuore troppo gonfio e gli ordina di spezzarsi”, suggeriva il saggio Shakespeare, nel poema dell’orrore (Macbeth, Atto IV scena III).

E io ce l’ho una traccia. Per vivere ancora con chi non c’è più. Con chi ha deciso di non esserci più. Gli antichi greci chiamavano kairòs l’attimo in cui si fa la scelta. Dopo quest’attimo nulla sarà più lo stesso.

Ma ecco: la traccia. È quel prezioso segno, il nero che si dipana su un foglio bianco. Resiste, lui, agli insulti del tempo. Permette di venire incontro alla invocazione del poeta “Non recidere, forbice, quel volto,/ solo nella memoria che si sfolla…”.

Non fare del suo sorriso illuminante, della sua intelligenza, del suo impegno sociale, un ricordo tra tanti.

Il tracciato grafico lo può fare. Permettendo anche di seguire il peso della vita che diventava sempre più duro: obbligando il tracciato a rallentare, a stringersi, per cercare di difendersi.

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Anna Rita Guaitoli