Archivi tag: identità

Le donne che non vogliono figli

Mi sono occupata di questo aspetto sociale sempre più evidente in occasione della giornata di approfondimento proposta dall’AGP Lazio, l’8 marzo di quest’anno. Intorno all’argomento, in effetti, sono poi usciti diversi articoli sui principali quotidiani nella primavera successiva.

Bene: vuol dire che le antennine sociali sono opportunamente in allerta. Del resto, se si fa un salto sui vari blog, si incontrano uomini e donne che illustrano con dovizia di parole la loro volontà di non avere figli: e non certo per motivi economici (a livello statistico, gli eccessivi costi monetari dei figli sembrano essere determinanti solo per il 15%), quanto perché (e scelgo a caso):

– “Un figlio è per sempre…”

– “Vogliamo approfittare della nostra vita in due, uscire, viaggiare…”

– “Preferisco fare lo zio piuttosto che il padre…”

– “Un figlio è una grande responsabilità. Non me la sento di occuparmi di un’altra vita, oltre alla mia…”

– “E’ meglio che io rimanga la figlia e mia madre faccia la mamma per sempre, così io rimango giovane, carina in forma”.

Childfree, neologismo americano, creato dall’unione di child e free, ha significato chiaro: “libero da figli”. Si contrappone a chi è childless perché figli, per ragioni strettamente economiche, o di salute, non ne ha potuto avere. Nel tema semantico della parola childfree, dunque, senza vena polemica o provocatoria, c’è solo la ‘libertà’ di non mettere al mondo figli.

Negli Stati uniti il fenomeno è conclamato: ha anche una giornata celebrativa (la prima domenica di giugno in ricordo di quando, nel 1992, fu pubblicato un libro dal titolo esplicito, Perché non avete bambini? Una vita piena senza diventare genitori); ed è realtà così importante da suscitare l’interesse, e le riflessioni, del Time (agosto 2013): “Stanno inventando un nuovo archetipo femminile per cui il massimo significa non avere un figlio”.

Le cifre delle indagini statistiche, del resto, attestano ovunque un progressivo aumento di donne senza figli (in Inghilterra il numero è raddoppiato in 20 anni; in Francia si calcola che il 12-16 % delle donne nate negli anni 80′ non avrà mai figli, contro il 10% delle donne nate nel 1940).

E in Italia, il paese del “mammismo”? Letizia Mencarini, demografa dell’Università di Firenze, riconosce essere in atto una mutazione antropologica, un cambiamento totale di rotta nella storia italiana family oriented.

Nell’ultimo decennio, infatti, il numero di donne italiane che terminano la loro “carriera riproduttiva” (come dicono i demografi facendo raggelare ogni sensibilità di donna) senza aver avuto figli è cresciuto in modo rapidissimo, passando dal 10% per le donne nate nel 1955 al 20% per quelle nate nel 1965. E il numero delle coppie senza figli nella fascia tra i 40 e i 49 anni è aumentato del 40% negli ultimi 10 anni (dati nel più recente Rapporto sulla Popolazione pubblicato da “Il Mulino”).

Rispetto allo specifico del tema proposto, in cifre assolute, sono dieci volte più numerose rispetto a 50 anni fa (conferma da dati Eurisko) le donne che non vogliono figli. E se nel passato erano soprattutto donne famose (attrici, scienziate…) a portare avanti questa scelta, oggi sono donne “comuni”.

Dalle analisi sociologiche emerge un ritratto chiaro delle nostre childfree: sono donne attive, che lavorano, e svolgono attività di profilo generalmente alto; e alto è il loro livello d’istruzione rispetto alla media delle donne italiane (quasi il 19% sono laureate, e il 37% ha un diploma di scuola media superiore contro, rispettivamente, il 9% e il 27% della popolazione femminile italiana). Spesso vivono sole (40%), al massimo in coppia (56%).

Con gli ultimi due dati subentra un elemento che si rivela statisticamente importante: la fragilità del rapporto di coppia rappresenta infatti una forte motivazione alla rinuncia della maternità per oltre il 35% delle donne. E’ aspetto che si inserisce all’interno di una realtà sociologica caratterizzata dalla precarizzazione dei rapporti, e dalla rivoluzione della famiglia tradizionale.

In effetti, la realtà delle childfree, nel suo complesso, è talmente fenomeno nuovo che non si può neppure avvicinare a quello dei “dink” (double income no kids), due stipendi e nessun figlio: quelle coppie gaudenti che negli anni ’80 e ’90 preferivano viaggiare e consumare piuttosto che occuparsi di pappe e bebè.

Le scelte appaiono simili: la carriera, la complicità della coppia, il desiderio di viaggiare, coltivare hobby, nonché avere più disponibilità economica. Ma lo scenario è cambiato: e questo stile di vita con uno sguardo fondamentalmente rivolto su se stessi, è solo in parte retaggio della me generation tutta felice di sé. E’ vero: si pensa a fare solo ciò che va, solo ciò che conviene, solo ciò che non implichi scelte senza via di uscita. Però la spinta, più che dall’edonismo puro, è dettata dal pessimismo: più che vivere per godere il mondo, è vivere per lasciare fuori il mondo con i suoi drammi.

Il mito di Kore

Grafologi come Anna Dondero e Massimo Redaelli hanno portato avanti da tempo la riflessione su come i miti rivivano nelle scritture di oggi. Letture che si sono rivelate sempre avvincenti, soprattutto stimolanti, pur nelle perplessità che potevano suscitare.

Se qui riprendo brevemente il mito di Kore (anche detta Persefone, e Proserpina a Roma), è perché mi sembra rispecchiare, nella narrazione, la situazione della donna “anta” di oggi.

Kore è la “fanciulla” per eccellenza: fanciulla dal volto di bocciolo, una splendida meraviglia.

Anna Rita Guaitoli – Dall’articolo pubblicato nella rivista “Il Giardino di Adone” n. 27


  1. Kerényi, Gli dei e gli eroi della Grecia, Milano, Il Saggiatore, 1963

Le scritture (brutte) degli adolescenti

I brufoli degli adolescenti di oggi sono gli stessi di quelli di ieri, scrivevo in “Ascoltare il segno..”[1]. In effetti quella anormalità che è normalità, come definiva l’adolescenza Anna Freud, comincia con un discorso di biologia e finisce nel sistema culturale.

In quanto fenomeno biologico, è un appuntamento ineludibile dal punto di vista di vista fisiologico di per sé sconvolgente per i cambianti fisici e pulsionali che comporta. In quanto fenomeno culturale, vede giocare i fattori diversi che vanno a significare ogni società, in ogni tempo (compreso l’aumento dei tassi di disoccupazione, il cambiamento dei ruoli in famiglia…).

Per gli adolescenti, rimangono da affrontare, inalterate, le principali problematiche, tutte collegate alla soddisfazione del compito primo di questa fase che è la conquista della propria identità, la cui ricerca è segnata, come ci ha insegnato Erikson[2], dalla necessità della sperimentazione e della provvisorietà. Di diverso c’è il tempo della sperimentazione che di fatto si è allungato tanto da far parlare di adolescenza interminabile.

Così, per chi deve interpretare le scritture adolescenziali  la difficoltà dell’analisi si è fatta sempre più ardua.

L’esperienza di chi è a contatto con le grafie adolescenziali ha da tempo avvertito le trasformazioni in atto che hanno portato a prevalere le brutte grafie con perturbazione dei ritmi di spazio e movimento, forme maldestre, confuse. La discussione se si tratti di disgrafia è tutta aperta. Una difficoltà alla comunicazione, è certezza immediata.

Non sta a me affrontare le cause: posso solo ri-proporre come spunto di riflessione urgente le modalità attuali eccessivamente permissive nell’apprendimento del gesto scrittorio.

Non è facile comunque, è vero, l’analisi delle scritture adolescenziali.

Due, almeno, gli avvertimenti che ritengo necessario ricordare ogni volta:

a)     in tutta la fase evolutiva il discorso in itinere diventa quasi obbligatorio;

b) nella fase più propriamente adolescenziale da considerare sarà soprattutto l’ambivalenza[3].

Due esempi di seguito:

N14-figura-120 copia

N12-figura-48 copia

(le scritture sono prese dal libro di Anna Rita Guaitoli Ascoltare il segno. Per un dialogo silenzioso con la scrittura dell’adolescente, Roma, Borla, 1999)


[1] Anna Rita Guaitoli, A.Orlandi, Ascoltare il segno. Per un dialogo silenzioso con la scrittura dell’adolescente, Roma, Borla, 1999

[2] Per approfondimenti sulle teorie principali che riguardano l’età adolescenziale vedi:  Anna Rita Guaitoli in Identità, scrittura e segni, (Guaitoli, Manetti), Roma, CE.DI.S, 2005

[3] Anna Rita Guaitoli, Riflessioni sull’ambivalenza e proposte operative, “Il Giardino di Adone”, n.5

La scelta dello stampatello nella costruzione dell’identità

Di fronte alla sempre maggiore frequenza nelle scritture di oggi del modello script (per semplificazione: considereremo sotto questa voce sia lo script in cui permane la presenza della zona minuscola, sia il tipografico con le lettere tutte maiuscole, sia -quello oggi prevalente- misto di lettere corsive e non), due sono le domande che bisogna porsi: dal punto di vista più strettamente sociologico, fino a che punto si sta estendendo; dal punto di vista specificatamente grafologico, come poterlo analizzare.

Per qualunque prospettiva di analisi, rimane la domanda fondamentale: perché?

Intanto alcuni dati. Nell’ultima inchiesta francese sulle scritture degli adolescenti (1997) lo script era presente nel 23% delle scritture dell’ultimo anno scolastico, con forte aumento rispetto alla precedente degli anni ‘80.

Oggi, l’aumento è percepibile facilmente nell’esperienza di tutti. E comunque su 350 scritture di ragazzi dai 14 ai 19 anni da me analizzate negli ultimi tre anni scolastici ho riscontrato una percentuale del 60% nel biennio (14/16 anni) e del 37% nel triennio (16/19 anni).

Pur tenendo presente, dunque, caratteristiche specifiche della fase evolutiva quali transitorietà, spinta dell’imitazione, necessità avvertita di chiarezza, è innegabile che lo script si stia affermando come modello che va a soppiantare quello dominante fino a qualche anno fa, molto tondo, gonfio, con cerchietti al posto dei puntini.

Il peso della sua frequenza ci impone di non risolvere l’analisi di uno script con sbrigatività e ci costringe a superare la visione tradizionale per cui questa scelta grafica, in quanto povera di movimento, sia solo una bizzarria; e in quanto “maschera”, rappresenti una costruzione falsa di sé.

[…]

Sarà da capire allora quali possano essere le motivazioni generali possibili dietro questa scelta. Mi è sembrato utile per una analisi non astratta,  fare riferimento alla collaudata teoria di Maslow […] Ricordiamo anche che i bisogni, come tali, mettono in moto le motivazioni: quelle motivazioni che, a loro volta, attiveranno dei comportamenti ritenuti opportuni e funzionali alla soddisfazione dei bisogni stessi.

[…]

Questo è stato e questo è. Non possiamo però, in quanto a contatto con i ragazzi e in quanto studiosi di comportamenti, non interrogarci sull’uso sempre più frequente dello script, cercandone i perché.

Una delle risposte che si può proporre in aggiunta a quelle sopra esposte è che nel momento in cui i modelli relativi all’identità collettiva risultano più fragili, più difficile diventa, per questi nostri adolescenti, la conquista di identità. […]

Ritornando nell’ambito del nostro specifico, una tale realtà sociologicamente macroscopica non potrà che spingerci a porre nuova attenzione agli elementi grafici da valutare superando le cautele, se non le critiche, di chi analizzava nel passato questa modalità scrittoria allora rara, sottolineandone monotonia, gesto spezzato, povertà di movimento. Dal punto di vista dell’analisi, lo sguardo si dovrà fare attento al tracciato […]

Non basterà certo mettere delle croci su qualche griglia per cercare il “perché” di quel comportamento grafico. Solo la capacità di valutare le sfumature, di cogliere il dosaggio dei pesi in gioco, permetterà al grafologo di entrare nella struttura intima e intercettare il senso di quel conflitto di forze che ha dato l’avvio alla costruzione di tanta armatura di difesa. Una armatura che, comunque, permette di esserci.

Anna Rita Guaitoli – Dalla relazione nella giornata di studio e di aggiornamento dell’AGP Lazio “ L’immagine e l’identità di sé nella scrittura spontanea e in quella artificiosa” (Roma, 13 novembre 2005). 

La formazione dell’autostima nell’epoca dei “Narcisi”

Quanto l’autostima sia fondamentale per vivere bene la vita, lo si sa. Forse non sempre si riflette su quanto il livello di autostima nasca da un confronto fra sé e il mondo circostante.
Se l’analisi della situazione parte da un confronto errato, errate – ovviamente – saranno le conclusioni.

Noi che ci occupiamo di scrittura, prodotto “sociale” prima che individuale, non possiamo non interrogarci su come sia il mondo circostante. OGGI.
Non sempre, e non subito, si avranno delle risposte. Ma, almeno, si cercherà di svincolarsi dagli schemini per entrare nella realtà. Si eviterà così il rischio di parlare degli adolescenti di venti-dieci anni fa: ricordate, quelli che scrivevano gonfio, arrotolato, a boule?
Gli adolescenti che vivono QUESTA realtà sono quelli che per 4 ore al giorno mandando “messaggini” e tutto il giorno mantengono il “controllo” della pagina facebook.

Sarà pure liquida, ma certo la nostra è società che vive trasformazioni definibili epocali, e senza enfasi retorica. Possibile che non cambino i processi di apprendimento? E le relazioni? E, soprattutto, la costruzione della propria identità?

Con riferimento all’argomento da trattare, cominciamo da qui, perché non si può parlare di autostima se non c’è identità. Che non è una ‘cosa’ definibile con una parola: ma un processo complesso che si costruisce nel tempo, attraverso i rapporti, all’interno della società di appartenenza.

Lo sviluppo dell’identità individuale è condizionato, oggi, dall’incontro tra la società detta “liquida” e la rivoluzione teconologica-digitale. Stanno così cambiando le abitudini e i rapporti degli adulti; soprattutto, ad essere coinvolti saranno loro, gli adolescenti: quelli della generazione Z, o “Nativi digitali”.

Per indagare la nuova realtà occorre che non vi siano paraocchi ma nemmeno giudizi superficiali (peggio, pre-giudizi). Bisognerà individuare i vari aspetti, e valutarli all’interno di un range tra rischio e opportunità.

A cominciare, bisognerà valutare il senso del nuovo narcisismo, sempre più celebrazione estetica e spettacolare del singolo.

Quelle immagini che, soddisfacendo il desiderio di rappresentazione per così essere riconosciuti, dovrebbero far crescere l’autostima, rischiano (vedi aspetti particolari come selfie e egosurfing) di costruire un narcisismo fragile sul quale si costruiranno identità fragili; e ambigue.

Sarà anche un narcisismo patologico? Segnali inquietanti sempre più diffusi ci sono. Ma lasciamo che altri, competenti, indaghino, riflettano.

Noi, senza drammatizzare, incontreremo nel tracciato grafico un ragazzo per quello che è oggi: con le sue paure – quelle di sempre – che sempre più difficilmente trovano parole. Con le emozioni che bruciano dentro, ma si spezzettano nelle mille “faccette” con cui può esprimere solo stati d’animo, brevi e superficiali.

Dopo tutto questo discorso, si può pensare allora che scritture così siano oggi ancora prevalenti?

sintesi1

 Ma allora, se l’autostima è legata alla immagine che viene modificata narcisisticamente – e continuamente – in onore di quel povero Io che non ha altri punti di riferimento né altri parametri per cui rafforzarsi, troveremo tutti … Zelig?

sintesi2

Anna Rita Guaitoli – Dalla relazione La formazione dell’autostima nell’epoca dei Narcisi per la giornata di studio e di aggiornamento dell’AGIF “L’autostima, nei suoi aspetti grafologici e psicologici” (23 novembre 2013)